Ciò che Chiara Cappelletti realizza nelle sue tele, in cui figure femminili e vegetali si corrispondono in uno scambio di armoniose affinità elettive, non si tratta di metamorfosi né di interpolazioni o di trasmigrazioni pittoriche tra due diversi mondi. La Natura, infatti, è unica e partecipa di entrambe. E’ di fatto illusorio credere che alberi e piante appartengano ad un ambito biologico diverso da quello umano, e che i loro “comportamenti” siano dissimili da quelli animali, genere umano incluso, come ben spiega nei suoi libri il botanico Stefano Mancuso. A somiglianza di quella degli uomini, la vita sociale delle piante non si limita al proprio regno, quello vegetale, ma travalica - molto più spesso di quello che si possa supporre - in quello animale che comprende, appunto, noi uomini. Chiara mette in luce, non scientificamente ma per la via della bellezza, questa relazione e interazione intensa che si fa ancora più forte perché tratta specificamente di un’umanità femminile. Un dominio, quello delle donne, in cui la pregnanza affettiva e sentimentale è, in genere, maggiormente in grado di palesare e svelare senza eccessive remore o riserve, il proprio universo interiore. La connessione che si innesca tra questi due mondi, nello sfiorarsi ed accarezzarsi, nel chiedere e cercare risorse l’uno dall’altro, rende più potente il loro reciproco protendersi verso una comprensione profonda e spesso salvifica, vitalistica e guaritrice. Le scelte formali più idonee alla definizione di questo legame, la Pittrice le individua in una nitidezza precisa e incredibilmente attenta ai dettagli, tutti strutturalmente organici al pensiero che vi è sotteso: la solidarietà strettissima con la natura che però è anche segno e simbolo di una profonda identificazione con il proprio genere e con le connessioni di solidarietà e di sorellanza che ne sono il portato. Dunque questa oggettività lucida non è esercizio di stile o virtuosismo tecnico, ma una necessità semantica che viene dal profondo.
CHIARA CAPPELLETTI
dipinti acrilici
Se avessimo bisogno di una definizione per meglio comprendere l’orien-tamento della scelta linguistica di Chiara Cappelletti nell’ambito vasto della figuratività contemporanea – si potrebbe forse definire come una sorta di eterotopìa questo suo modo di costruire perfette figure femminili e una vegetazione che si relaziona intimamente con loro, entrambe così “metafo-ricamente” definite e, nello stesso tempo, così fisiche e concrete, situate in un loro spazio anch’esso “reale”. Non deve sconcertare il termine (preso in prestito dalla medicina), utilizzato dal filosofo francese Michel Foucault all’inizio degli anni Sessanta per descrivere spazi reali connessi a tutti gli altri spazi, però in modo tale da sospendere o invertire l'insieme dei rapporti che essi stessi designano, o rispecchiano. Così è per le donne narrate nei quadri di Chiara, che paiono immerse in un fisico nulla e riflesse in uno specchio. E lo specchio è il luogo, o meglio, non-luogo (e dunque “eterotopico” per eccellenza), nel quale vediamo noi stessi dove non siamo, collocati in uno spazio irreale che si apre virtualmente dietro la sua superficie ma che, al contempo, è assolutamente reale, connesso a tutto lo spazio che lo circonda. Il contesto in cui queste figure vivono respirano, si muovono, scrutando intensamente e misteriosamente è, forse, anche il non-luogo psicologico della stessa Pittrice, una realtà in cui rappresentare i suoi diversi io e le relazioni emotive e affettive del proprio vissuto. Già ne Le parole e le cose, Un'archeologia delle scienze umane (1963) Foucault contrapponeva utopie ed eterotopie, scrivendo che le prime consolano perché, non possedendo una loro propria realtà, si aprono alla possibilità di mondi meravigliosi, chimerici; mentre le seconde inquietano perché “devastano la «sintassi» e non soltanto quella che costruisce le frasi, ma quella meno manifesta che fa «tenere insieme” le parole e le cose”. Le eterotopie spezzano, bloccano e confondono. Mentre le utopie consentono le favole e i discorsi. Fuggendo dalla consolazione utopica, dunque, Chiara Cappelletti accoglie l’inquietudine eterotopica; lo fa, però, sorprendente-mente, attraverso una precisa estetica e con la complicità della natura, due elementi che, uniti, riescono a ridisegnare un percorso, a dipanare una via narrativa, a rappresentare l’esistenza, a proiettare sulla tela, per interposta persona, parti celate del sé. Che sono, alla fine, alcuni dei molti e importanti obiettivi tradizionali ma sempre attuali e strategici dell’arte del Novecento e di questo primo scorcio del nuovo millennio.
Giovanna Grossato
Mostra "Birds" all'Officina Arte Contemporanea Vicenza Foto Luigi Bianco