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Se avessimo bisogno di una definizione per meglio comprendere l’orien-tamento della scelta linguistica di Chiara Cappelletti nell’ambito vasto della figuratività contemporanea – si potrebbe forse definire come una sorta di eterotopìa questo suo modo di costruire perfette figure femminili e una vegetazione che si relaziona intimamente con loro, entrambe così “metafo-ricamente” definite e, nello stesso tempo, così fisiche e concrete, situate in un loro spazio anch’esso “reale”. Non deve sconcertare il termine (preso in prestito dalla medicina), utilizzato dal filosofo francese Michel Foucault all’inizio degli anni Sessanta per descrivere spazi reali connessi a tutti gli altri spazi, però in modo tale da sospendere o invertire l'insieme dei rapporti che essi stessi designano, o rispecchiano. Così è per le donne narrate nei quadri di Chiara, che paiono immerse in un fisico nulla e riflesse in uno specchio. E lo specchio è il luogo, o meglio, non-luogo (e dunque “eterotopico” per eccellenza), nel quale vediamo noi stessi dove non siamo, collocati in uno spazio irreale che si apre virtualmente dietro la sua superficie ma che, al contempo, è assolutamente reale, connesso a tutto lo spazio che lo circonda. Il contesto in cui queste figure vivono respirano, si muovono, scrutando intensamente e misteriosamente è, forse, anche il non-luogo psicologico della stessa Pittrice, una realtà in cui rappresentare i suoi diversi io e le relazioni emotive e affettive del proprio vissuto. Già ne Le parole e le cose, Un'archeologia delle scienze umane (1963) Foucault contrapponeva utopie ed eterotopie, scrivendo che le prime consolano perché, non possedendo una loro propria realtà, si aprono alla possibilità di mondi meravigliosi, chimerici; mentre le seconde inquietano perché “devastano la «sintassi» e non soltanto quella che costruisce le frasi, ma quella meno manifesta che fa «tenere insieme” le parole e le cose”. Le eterotopie spezzano, bloccano e confondono. Mentre le utopie consentono le favole e i discorsi.  Fuggendo dalla consolazione utopica, dunque,  Chiara Cappelletti accoglie l’inquietudine eterotopica; lo fa, però, sorprendente-mente, attraverso una precisa estetica e con la complicità della natura, due elementi che, uniti, riescono a ridisegnare un percorso, a dipanare una via narrativa, a rappresentare l’esistenza, a proiettare sulla tela, per interposta persona, parti celate del . Che sono, alla fine, alcuni dei molti e importanti obiettivi tradizionali ma sempre attuali e strategici dell’arte del Novecento e di questo primo scorcio del nuovo millennio.

 

Giovanna Grossato

 

 

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